Prova 4

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Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi, e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l’alto consiglio s’adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de’ prodi Atride e il divo Achille. E qual de’ numi inimicolli? Il figlio di Latona e di Giove. Irato al Sire destò quel Dio nel campo un feral morbo, e la gente perìa: colpa d’Atride che fece a Crise sacerdote oltraggio. Degli Achivi era Crise alle veloci prore venuto a riscattar la figlia con molto prezzo. In man le bende avea, e l’aureo scettro dell’arciero Apollo: e agli Achei tutti supplicando, e in prima ai due supremi condottieri Atridi: O Atridi, ei disse, o coturnati Achei, gl’immortali del cielo abitatori concedanvi espugnar la Prïameia cittade, e salvi al patrio suol tornarvi. Deh mi sciogliete la diletta figlia, ricevetene il prezzo, e il saettante figlio di Giove rispettate. –

Al prego tutti acclamâr: doversi il sacerdote riverire, e accettar le ricche offerte. Ma la proposta al cor d’Agamennóne non talentando, in guise aspre il superbo accommiatollo, e minaccioso aggiunse: Vecchio, non far che presso a queste navi ned or né poscia più ti colga io mai; ché forse nulla ti varrà lo scettro né l’infula del Dio. Franca non fia costei, se lungi dalla patria, in Argo, nella nostra magion pria non la sfiori vecchiezza, all’opra delle spole intenta, e a parte assunta del regal mio letto. Or va, né m’irritar, se salvo ir brami. Impaurissi il vecchio, ed al comando obbedì. Taciturno incamminossi del risonante mar lungo la riva; e in disparte venuto, al santo Apollo di Latona figliuol, fe’ questo prego: Dio dall’arco d’argento, o tu che Crisa proteggi e l’alma Cilla, e sei di Tènedo possente imperador, Smintèo, deh m’odi. Se di serti devoti unqua il leggiadro tuo delubro adornai, se di giovenchi e di caprette io t’arsi i fianchi opimi, questo voto m’adempi; il pianto mio paghino i Greci per le tue saette. Sì disse orando. L’udì Febo, e scese dalle cime d’Olimpo in gran disdegno coll’arco su le spalle, e la faretra tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo su gli omeri all’irato un tintinnìo al mutar de’ gran passi; ed ei simìle a fosca notte giù venìa. Piantossi delle navi al cospetto: indi uno strale liberò dalla corda, ed un ronzìo terribile mandò l’arco d’argento. Prima i giumenti e i presti veltri assalse, poi le schiere a ferir prese, vibrando le mortifere punte; onde per tutto degli esanimi corpi ardean le pire. Nove giorni volâr pel campo acheo le divine quadrella. A parlamento nel decimo chiamò le turbe Achille; ché gli pose nel cor questo consiglio Giuno la diva dalle bianche braccia, de’ moribondi Achei fatta pietosa. Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo levossi Achille piè-veloce, e disse: Atride, or sì cred’io volta daremo nuovamente errabondi al patrio lido, se pur morte fuggir ne fia concesso; ché guerra e peste ad un medesmo tempo ne struggono. Ma via; qualche indovino interroghiamo, o sacerdote, o pure interprete di sogni (ché da Giove anche il sogno procede), onde ne dica perché tanta con noi d’Apollo è l’ira: se di preci o di vittime neglette il Dio n’incolpa, e se d’agnelli e scelte capre accettando l’odoroso fumo, il crudel morbo allontanar gli piaccia. Così detto, s’assise. In piedi allora di Testore il figliuol Calcante alzossi, de’ veggenti il più saggio, a cui le cose eran conte che fur, sono e saranno; e per quella, che dono era d’Apollo, profetica virtù, de’ Greci a Troia avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo pien di senno parlò queste parole: Amor di Giove, generoso Achille, vuoi tu che dell’arcier sovrano Apollo ti riveli lo sdegno? Io t’obbedisco. Ma del braccio l’aita e della voce a me tu pria, signor, prometti e giura: perché tal che qui grande ha su gli Argivi tutti possanza, e a cui l’Acheo s’inchina, n’andrà, per mio pensar, molto sdegnoso. Quando il potente col minor s’adira, reprime ei sì del suo rancor la vampa per alcun tempo, ma nel cor la cova, finché prorompa alla vendetta. Or dinne se salvo mi farai. – Parla securo, rispose Achille, e del tuo cor l’arcano, qual ch’ei si sia, di’ franco. Per Apollo che pregato da te ti squarcia il velo de’ fati, e aperto tu li mostri a noi, per questo Apollo a Giove caro io giuro: nessun, finch’io m’avrò spirto e pupilla, con empia mano innanzi a queste navi oserà vïolar la tua persona, nessuno degli Achei; no, s’anco parli d’Agamennón che sé medesmo or vanta dell’esercito tutto il più possente. Allor fe’ core il buon profeta, e disse: né d’obblïati sacrifici il Dio né di voti si duol, ma dell’oltraggio che al sacerdote fe’ poc’anzi Atride, che francargli la figlia ed accettarne il riscatto negò. La colpa è questa onde cotante ne diè strette, ed altre l’arcier divino ne darà; né pria ritrarrà dal castigo la man grave, che si rimandi la fatal donzella non redenta né compra al padre amato, e si spedisca un’ecatombe a Crisa. Così forse avverrà che il Dio si plachi. Tacque, e s’assise. Allor l’Atride eroe il re supremo Agamennón levossi corruccioso. Offuscavagli la grande ira il cor gonfio, e come bragia rossi fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima squadrò torvo Calcante, indi proruppe: Profeta di sciagure, unqua un accento non uscì di tua bocca a me gradito. Al maligno tuo cor sempre fu dolce predir disastri, e d’onor vote e nude son l’opre tue del par che le parole. E fra gli Argivi profetando or cianci che delle frecce sue Febo gl’impiaga, sol perch’io ricusai della fanciulla Crisëide il riscatto. Ed io bramava certo tenerla in signoria, tal sendo che a Clitennestra pur, da me condutta vergine sposa, io la prepongo, a cui di persona costei punto non cede, né di care sembianze, né d’ingegno ne’ bei lavori di Minerva istrutto. Ma libera sia pur, se questo è il meglio; ché la salvezza io cerco, e non la morte del popol mio. Ma voi mi preparate tosto il compenso, ché de’ Greci io solo restarmi senza guiderdon non deggio; ed ingiusto ciò fôra, or che una tanta preda, il vedete, dalle man mi fugge. O d’avarizia al par che di grandezza famoso Atride, gli rispose Achille, qual premio ti daranno, e per che modo i magnanimi Achei? Che molta in serbo vi sia ricchezza non partita, ignoro: delle vinte città tutte divise ne fur le spoglie, né diritto or torna a nuove parti congregarle in una. Ma tu la prigioniera al Dio rimanda, ché più larga n’avrai tre volte e quattro ricompensa da noi, se Giove un giorno l’eccelsa Troia saccheggiar ne dia. E a lui l’Atride: Non tentar, quantunque ne’ detti accorto, d’ingannarmi: in questo né gabbo tu mi fai, divino Achille, né persuaso al tuo voler mi rechi. Dunque terrai tu la tua preda, ed io della mia privo rimarrommi? E imponi che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti concedanmi gli Achivi altra captiva che questa adegui e al mio desir risponda. Se non daranla, rapirolla io stesso, sia d’Aiace la schiava, o sia d’Ulisse, o ben anco la tua: e quegli indarno fremerà d’ira alle cui tende io vegna. Ma di ciò poscia parlerem. D’esperti rematori fornita or si sospinga nel pelago una nave, e vi s’imbarchi coll’ecatombe la rosata guancia della figlia di Crise, e ne sia duce alcun de’ primi, o Aiace, o Idomenèo, o il divo Ulisse, o tu medesmo pure, tremendissimo Achille, onde di tanto sacrificante il grato ministero il Dio ne plachi che da lunge impiaga. Lo guatò bieco Achille, e gli rispose: Anima invereconda, anima avara, chi fia tra i figli degli Achei sì vile che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada in agguati convegna o in ria battaglia? Per odio de’ Troiani io qua non venni a portar l’armi, io no; ché meco ei sono d’ogni colpa innocenti. Essi né mandre né destrier mi rapiro; essi le biade della feconda popolosa Ftia non saccheggiâr; ché molti gioghi ombrosi ne son frapposti e il pelago sonoro. Ma sol per tuo profitto, o svergognato, e per l’onor di Menelao, pel tuo, pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti, e a me medesmo di rapir minacci de’ miei sudori bellicosi il frutto, l’unico premio che l’Acheo mi diede.

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